LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                       Sesta Sezione civile 2 
 
    composta dagli ill.mi sigg.ri magistrati: 
    dott. Stefano Petitti - Presidente 
    dott. Pasquale D'Ascola - consigliere; 
    dott. Vincenzo Correnti - consigliere; 
    dott. Milena Falaschi - consigliere; 
    dott. Mauro Criscuolo - rel. consigliere; 
    ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
n. 3790-2016 proposto da: 
        La Macchia Fiorella, elettivamente domiciliata in  Roma,  via
Giulia, 66, presso lo studio dell'avvocato  Roberto  D'Atri,  che  la
rappresenta  e  difende  giusta  procura  a  margine   del   ricorso;
ricorrente; 
    nonche' contro Ministero della giustizia 8018440587, intimato; 
    Avverso il decreto n. 1912/2015 della Corte d'appello di Perugia,
depositata il 29 dicembre 2015; 
    udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del
10 novembre 2016 dal consigliere dott. Mauro Criscuolo; 
 
                           Fatto e diritto 
 
    La  Corte  d'appello  di  Perugia  con  decreto  del  consigliere
delegato del 21  luglio  2015  dichiarava  improponibile  il  ricorso
proposto da La  Macchia  Fiorella  con  il  quale  era  richiesta  la
condanna del  Ministero  della  giustizia  all'equa  riparazione  per
l'irragionevole durata del procedimento civile  svoltosi  dinanzi  al
Tribunale di Roma, in quanto non risultava che la sentenza che  aveva
definito il giudizio fosse ancora passata in giudicato. 
    Per l'effetto condannava la ricorrente anche al  pagamento  della
somma di € 1.000,00  ai  sensi  dell'art.  5-quater  della  legge  n.
89/2001. 
    A seguito di opposizione, la Corte  di  appello  in  composizione
collegiale, con decreto del 29 dicembre 2015, confermava  il  decreto
opposto, ritenendo che fosse stato correttamente applicato  l'art.  4
della legge n. 89/2001 come novellato nel 2012, nella  parte  in  cui
pone  come  requisito  di  proponibilita'  della  domanda   di   equa
riparazione, il passaggio in giudicato della sentenza che ha definito
il provvedimento presupposto. 
    Infatti, la decisione che ha chiuso il giudizio al quale ha preso
parte la La Macchia e' stata pubblicata il  22  maggio  2015,  e  non
risulta essere stata  notificata,  con  la  conseguenza  che  per  il
passaggio in giudicato e' necessario attendere il  termine  lungo  di
cui all'art. 327 codice di procedura civile, nella fattispecie ancora
di un anno. 
    Alcuna  rilevanza  poteva   poi   assegnarsi   alla   transazione
intervenuta tra la ricorrente e la convenuta  Unipol,  posto  che  al
giudizio  avevano  preso  parte  anche   altri   soggetti,   estranei
all'accordo transattivo, per i quali continuava a valere  il  termine
lungo per il passaggio in giudicato. 
    Andava  altresi'  disattesa  la  richiesta  di  sospensione   del
procedimento  ex  legge  n.  89/2001  in  attesa  del  passaggio   in
giudicato, e  risultava  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale  dell'art.  4  della  medesima  legge  in
quanto la parte interessata avrebbe potuto  notificare  la  sentenza,
accelerando il suo passaggio in giudicato. 
    Infine era da reputarsi corretta la condanna della ricorrente  al
pagamento della somma ai  sensi  dell'art.  5-quater,  dovendosi  far
rientrare l'improponibilita' della domanda ex art. 4 nel  piu'  ampio
genus dell'inammissibilita' previsto dalla legge. 
    Per la cassazione di questo decreto  la  ricorrente  ha  proposto
ricorso affidato a tre motivi. 
    L'intimato Ministero non ha svolto difese in questa fase. 
    Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e  falsa
applicazione degli articoli 3 e 4 della  legge  n.  89/2001,  nonche'
degli articoli 292 e 327 codice di procedura civile. 
    Si deduce che in realta' la condizione alla quale e'  subordinata
la proposizione del ricorso per equa riparazione non e' il  passaggio
in  giudicato  del  provvedimento  che  ha   definito   il   processo
presupposto, quanto la certezza che  lo  stesso  processo  non  possa
essere poi proseguito. 
    Tale situazione ricorre indubbiamente nel caso, che si  configura
nella fattispecie in esame, in cui  le  parti  abbiano  concluso  una
transazione che ha posto fine ad ogni controversia. 
    Inoltre sarebbe impedita la  possibilita',  pur  prospettata  dal
provvedimento impugnato, di ottenere una riduzione dei termini per la
formazione del giudicato, in quanto non e' possibile avvalersi  della
previsione dell'abbreviazione del termine per  impugnare  quando  una
delle parti sia contumace. 
    In via subordinata, e nell'ipotesi  in  cui  si  ritenga  che  la
lettura delle norme sia conforme a quella sostenuta  dai  giudici  di
merito, si prospetta  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
delle medesime per contrasto con l'art. 117 Cost., in relazione  alle
previsioni della CEDU, in quanto la necessaria  posticipazione  della
domanda  di  equa  riparazione  al   passaggio   in   giudicato   del
provvedimento che definisce il giudizio presupposto viene  a  violare
il principio di  effettivita'  della  tutela  rimediale  interna,  in
contrasto con l'art. 134 della CEDU. 
    Il secondo motivo di ricorso  denunzia  la  violazione  dell'art.
5-quater della legge n. 89/2001, in quanto la  norma  presuppone  per
l'irrogazione  della  sanzione,  l'inammissibilita'  o  la  manifesta
infondatezza della domanda, ipotesi  che  non  ricorre  nel  caso  in
esame, evidenziandosi  altresi'  l'assoluto  difetto  di  motivazione
della pronuncia gravata. 
    Il terzo motivo denunzia  la  violazione  dell'art.  2-bis  della
legge n. 89/2001, prospettandosi, in caso di accoglimento  del  primo
motivo, e di decisione nel  merito  da  parte  di  questa  Corte,  il
contrasto della norma citata con gli articoli  3,  111  e  117  Cost.
nella parte in cui commisurano l'indennizzo all'importo  riconosciuto
dal giudice, e cio' anche  per  le  parti  soccombenti  nel  giudizio
presupposto. 
    Il primo motivo e' evidentemente infondato quanto alla pretesa di
poter prescindere dalla formale  adozione  di  un  provvedimento  che
definisca  il  processo  presupposto,  potendosi  a  tal   fine   far
riferimento alla certezza che il processo comunque non  possa  essere
proseguito. Ed, infatti costituisce principio costantemente affermato
da questa Corte,  sebbene  in  relazione  alla  vecchia  formulazione
dell'art. 4 della legge n. 89/2001, quello per il quale  (cfr.  Cass.
n. 6185/2010) ai fini  del  rispetto  del  termine  per  proporre  la
domanda di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole
durata del processo decorre  dal  giorno  della  cancellazione  della
causa dal ruolo, anche se la definizione della lite  dipenda  da  una
transazione stragiudiziale, non potendosi fare riferimento,  ai  fini
della predetta decorrenza, al momento di conclusione dell'accordo,  i
cui effetti vengono in evidenza solo quando siano fatti rifluire  nel
processo e facciano cosi' cessare il dovere del giudice di provvedere
sulla domanda, mentre il tempo lasciato trascorrere  per  abbandonare
il  processo,  o  chiederne  la  chiusura,  rileva   ai   soli   fini
dell'imputazione, alle parti e non allo Stato, della  responsabilita'
per l'ulteriore durata del processo. 
    In senso conforme si veda anche Cass. n. 5398/2005;  secondo  cui
il diritto all'equa riparazione ex art. 2 ss. della legge n.  89  del
2001 puo' essere fatto valere, in ipotesi di  giudizio  definito  con
transazione   stragiudiziale,   con    riferimento    al    protrarsi
irragionevole della durata della controversia per il tempo  anteriore
al  momento  in  cui  la  transazione  rifluisce  sul  processo   con
declaratoria  di  cessazione   della   materia   del   contendere   o
provvedimento di estinzione, nonche' Cass. n. 27719/2009, secondo cui
in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole
durata del processo, il termine per la  proposizione  della  relativa
domanda decorre dalla data del provvedimento conclusivo del  processo
(nella specie, la cancellazione  della  causa  dal  ruolo),  a  nulla
rilevando eventi ad esso estranei, quale la stipulazione di  un  atto
di transazione, che resta, dunque, estraneo all'ambito  del  giudizio
ed improduttivo di effetti limitativi sotto il  profilo  indennitario
(conf. Cass. n. 25355/2013). 
    Ritiene il Collegio  che  tali  precedenti  sebbene  riferiti  al
diverso contesto di cui alla disciplina in tema  di  equo  indennizzo
precedente la riforma del 2012,  per  la  quale  la  definizione  del
processo rilevava ai fini del rispetto del termine  semestrale  oltre
il quale non era data la possibilita' di agire per il  riconoscimento
dell'equa riparazione, si prestino ad orientare, anche  la  soluzione
da adottare alla luce della novella dell'art. 4, che oggi dispone che
la domanda di equa riparazione presupponga la previa definizione  con
provvedimento definitivo del procedimento presupposto. 
    Ne consegue che risulta del  tutto  irrilevante  a  tal  fine  la
circostanza che sia intervenuta  una  transazione  tra  (solo  alcune
del)le parti; e che comunque debba aversi riguardo ai  fini  che  qui
interessano, alla formazione del  giudicato  sulla  sentenza  che  ha
chiuso il processo. 
    Quanto alla pretesa incostituzionalita' della previsione  di  cui
all'art. 4, deve ritenersi che le argomentazioni di parte  ricorrente
meritino seguito. 
    Effettivamente  deve  reputarsi  che,   nel   ritenere   che   la
proponibilita' della domanda di equa riparazione  sia  esclusa  prima
del passaggio in giudicato della sentenza che ha definito il giudizio
presupposto,  la  Corte   territoriale   si   sia   conformata   alla
giurisprudenza di questa suprema Corte. 
    Sul punto, vale la pena di  ricordare  che  l'originario  tessuto
normativo della legge n. 89 del 2001 (c.d.  legge  Pinto)  ha  subito
significative modifiche ad opera dell'art. 55 del decreto-legge n. 83
del 2012, che ha - tra l'altro - sostituito proprio  l'art.  4  della
legge n. 89 del 2001. 
    Infatti, mentre l'originario testo di  tale  ultima  disposizione
prevedeva che «La domanda di riparazione puo' essere proposta durante
la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione  si  assume
verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi  dal  momento
in cui la  decisione,  che  conclude  il  medesimo  procedimento,  e'
divenuta definitiva», ora - a seguito della riforma del 2012 - l'art.
4 della legge Pinto stabilisce che «La domanda  di  riparazione  puo'
essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal  momento  in
cui  la  decisione  che  conclude   il   procedimento   e'   divenuta
definitiva». 
    Seppure sul piano puramente letterale il nuovo testo non  esclude
espressamente la proponibilita' della  domanda  di  equa  riparazione
durante  la  pendenza  del  giudizio   presupposto,   tuttavia   alla
esclusione di tale  proponibilita'  si  e'  pervenuti  a  seguito  di
un'interpretazione fondata sul criterio sistematico e sull'intenzione
del legislatore; valorizzando il fatto che la  riforma  del  2012  ha
condizionato l'an  e  il  quantum  del  diritto  all'indennizzo  alla
definizione del giudizio, prevedendo anche una serie  di  ipotesi  di
esclusione  del  diritto  all'indennizzo  dipendenti  dalla  condotta
processuale della parte e financo dall'esito del  giudizio  (condanna
del soccombente a norma dell'art. 96 codice di procedura civile). 
    Si e' cosi'  affermato,  nella  giurisprudenza  di  questa  Corte
suprema costituente ormai «diritto vivente», che,  in  tema  di  equa
riparazione per violazione del  termine  di  ragionevole  durata  del
processo, nel regime introdotto dal decreto-legge 22 giugno 2012,  n.
83, convertito in legge 7 agosto  2012,  n.  134,  la  proponibilita'
della domanda di indennizzo e' preclusa dalla pendenza  del  giudizio
presupposto (Sez. 2, sentenza n. 19479 del  16  settembre  2014,  Rv.
632159), dovendo ritenersi che il dies a quo,  da  cui  computare  il
termine di sei mesi previsto a pena di decadenza per la  proposizione
della  relativa  domanda,  e'   segnato   dalla   definitivita'   del
provvedimento conclusivo del procedimento nell'ambito  del  quale  la
violazione si assume consumata, definitivita'  che  va  collocata  al
momento  della   scadenza   del   termine   previsto   per   proporre
l'impugnazione ordinaria (Sez. 6 - 1, sentenza n. 13324 del 26 luglio
2012, Rv. 623537; Sez. 6 - 2, sentenza n. 21859 del 5 dicembre  2012,
Rv. 624426) ovvero al momento  del  deposito  della  decisione  della
Corte di cassazione che rigetta  o  dichiara  l'inammissibilita'  del
ricorso, determinando cosi' il passaggio in giudicato della  sentenza
impugnata (Sez. 6 - 2, sentenza n. 21863 del  5  dicembre  2012,  Rv.
624239). 
    La conclusione secondo cui la  proponibilita'  della  domanda  di
indennizzo e' preclusa durante  la  pendenza  del  giudizio  nel  cui
ambito la violazione della ragionevole durata del processo si  assume
essersi verificata e' stata condivisa dalla Corte costituzionale  con
la sentenza 25 febbraio 2014 n. 30. 
    Il giudice delle leggi, nel vagliare la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 55, comma 1, lettera d)  del  decreto-legge.
22 giugno 2012, n. 83 (convertito, con  modificazioni,  dall'art.  1,
comma 1, della legge 7 agosto  2012,  n.  134)  in  riferimento  agli
articoli  3,  111,  secondo  comma,  e  117,   primo   comma,   della
Costituzione, quest'ultimo in  relazione  all'art.  6,  paragrafo  1,
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali, ha ritenuto  sussistente  il  denunciato
vulnus delle norme costituzionali, come integrate dalle  norme  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali in forza del parametro  costituzionale  di  cui
all'art. 117 Cost. (nella parte in cui impone la conformazione  della
legislazione   interna   ai   vincoli   derivanti   dagli    obblighi
internazionali), ritenendo che il  differimento  della  esperibilita'
del ricorso alla definizione del procedimento in cui  il  ritardo  e'
maturato  ne  pregiudichi  l'effettivita'  anche  alla  stregua   del
parametro di cui all'art. 13 Convenzione europea per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e  delle  liberta'  fondamentali.  Ha  tuttavia
ritenuto  che  l'intervento  additivo  invocato  dal   rimettente   -
consistente  sostanzialmente  in  un'estensione   della   fattispecie
relativa all'indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso
a quella caratterizzata dalla  pendenza  del  giudizio  -  non  fosse
ammissibile,  «sia  per  l'inidoneita'  dell'eventuale  estensione  a
garantire l'indennizzo della violazione verificatasi in assenza della
pronuncia irrevocabile, sia perche' la modalita' dell'indennizzo: non
potrebbe essere definita "a rime obbligate" a causa della  pluralita'
di  soluzioni  normative  in  astratto  ipotizzabili  a  tutela   del
principio della ragionevole durata del processo». 
    La Corte costituzionale, con la richiamata  sentenza  n.  30  del
2014,  ha  pertanto  invitato  il  legislatore  ad  intervenire   per
risolvere, nell'esercizio della discrezionalita' che gli compete,  il
vulnus costituzionale  riscontrato,  concludendo  tuttavia  che  «non
sarebbe tollerabile l'eccessivo protrarsi dell'inerzia legislativa in
ordine al problema individuato nella presente pronuncia». 
    A seguito di  tale  pronuncia,  questa  Suprema  Corte  ha  prima
affermato che l'art. 4 della legge n. 89 del 2001 - laddove subordina
la   proponibilita'   della   domanda   di   equa   riparazione   per
l'irragionevole durata di  un  processo  alla  condizione  della  sua
preventiva definizione - non puo' essere disapplicato dal giudice  in
forza della  sentenza  costituzionale  n.  30  del  2014,  da  questa
evincendosi che la norma resta legittima,  sia  pure  ad  tempus,  in
attesa della sua riscrittura da parte del legislatore (Sez.  6  -  2,
sentenza n. 20463 del 12 ottobre 2015, Rv. 636597);  successivamente,
ha dichiarato manifestamente infondata la questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 4 della legge n. 89 del 2001, ritenendo  che
il legislatore, con la legge 28 dicembre 2015, n. 208 (art. 1,  comma
777), introducendo un sistema di rimedi preventivi diretti a impedire
la stessa formazione del ritardo processuale (articoli 1-bis e  1-ter
della legge Pinto), avesse aderito all'invito rivoltogli dalla  Corte
costituzionale con la richiamata sentenza n. 30 del 2014 (Sez. 6 - 2,
sentenza n. 13556 del 1 luglio 2016, Rv. 640328). 
    Orbene,  il  Collegio,  come  gia'  ritenuto  in  una  precedente
occasione, dissente da tale ultima decisione e  ritiene  -  invece  -
che, con la legge n. 208 del 2015, il legislatore non  abbia  risolto
il problema oggetto del monito rivoltogli dalla Corte costituzionale. 
    Infatti, il sistema di rimedi preventivi introdotto dalla recente
legge del 2015 e' volto  a  prevenire  la  irragionevole  durata  del
processo; esso, tuttavia, non sfiora il problema  della  effettivita'
della tutela indennitaria una volta che  l'irragionevole  durata  del
procedimento si sia verificata, come e' evidenziato dal fatto che  la
nuova normativa ha lasciato inalterato il  testo  dell'art.  4  della
legge n. 89 del 2001 (come sostituito dell'art. 55, comma 1,  lettera
d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83), che detta i termini  di
proponibilita' della domanda di equa riparazione. 
    In particolare, il Collegio ritiene che, anche  a  seguito  della
legge  n.  208  del  2015,  e'  rimasto  irrisolto  il  problema  del
differimento dell'esperibilita' del ricorso sino alla definizione del
procedimento presupposto; problema che presenta perduranti profili di
illegittimita' costituzionale del vigente  testo  dell'art.  4  della
legge n. 89 del 2001 - in rapporto agli articoli 3, 24, 111,  secondo
comma, e 117, primo comma, della Costituzione - nel momento in cui si
risolve nella  definitiva  inammissibilita'  della  domanda  proposta
durante la pendenza del procedimento presupposto, pur  quando,  nelle
more, il provvedimento che ha definito quest'ultimo  sia  passato  in
cosa giudicata. 
    Sul punto, non  va  sottaciuto  che  l'adeguamento  dell'impianto
normativo della legge Pinto alle  norme  costituzionali  e  a  quelle
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali non implica necessariamente la  messa  in
discussione del principio - posto a base della detta legge - per  cui
l'equa riparazione puo' essere  riconosciuta  solo  a  seguito  della
conclusione del procedimento presupposto. Anzi, puo'  rilevarsi  come
risultano   del   tutto   ragionevoli    e,    per    certi    versi,
costituzionalmente obbligate le scelte del legislatore  di  prevedere
ipotesi di esclusione dell'indennizzo  (art.  2,  comma  2-quinquies)
collegate alla colpevole condotta della parte, come tali verificabili
solo avuto riguardo all'esito definitivo del procedimento; e  d'altra
parte, sarebbe difficile non intravedere una lesione  del  parametro,
costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma
2, Cost.) ove  la  normativa  relativa  all'equo  indennizzo  dovesse
consentire la proposizione di plurime domande in  corrispondenza  del
numero dei gradi o delle fasi del medesimo procedimento  presupposto,
con un effetto, di moltiplicazione delle  controversie  che  potrebbe
sfociare persino  in  quel  deprecabile  fenomeno,  che  la  dottrina
definisce «abuso del processo». 
    Cio', tuttavia, non puo' significare che  la  proposizione  della
domanda di equo  indennizzo  in  pendenza  del  giudizio  presupposto
comporti la definitiva inaccoglibilita' della  pretesa  indennitaria;
essendo in tal caso evidente come l'art. 4  della  legge  n.  89  del
2001,  come  sostituito  dall'art.  55,  comma  1,  lettera  d),  del
decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, come  interpretato  nel  diritto
vivente, risulti difficilmente compatibile con gli  articoli  3,  24,
111,  secondo  comma,  e  117,  primo  comma,   della   Costituzione,
quest'ultimo in relazione agli articoli 6, paragrafo 1,  e  13  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali. 
    In altre parole, la previsione che la domanda di equo  indennizzo
possa validamente proporsi solo dopo il passaggio  in  giudicato  del
provvedimento che  ha  definito  il  giudizio  presupposto  non  puo'
tradursi -  sul  piano  della  legittimita'  costituzionale  -  nella
definitiva inammissibilita' della domanda erroneamente proposta prima
di tale passaggio in giudicato. 
    Nella specie, la ricorrente,  avendo  proposto  domanda  di  equo
indennizzo prima che passasse il giudicato il provvedimento che aveva
definito il giudizio presupposto, si e' vista  precludere  del  tutto
l'accesso  alla  tutela  indennitaria.  Risulta  percio'  sussistente
l'evidenziato vulnus costituzionale e risulta rilevante, la  relativa
questione  di  legittimita'   costituzionale;   che   va   nuovamente
sottoposta al giudice delle leggi, stante il perdurante inadempimento
del legislatore al monito impartito dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 30 del 2014. 
    In definitiva,  va  dichiarata  rilevante  e  non  manifestamente
infondata, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  4
della legge 24 marzo 2001, n. 89, come sostituito dall'art. 55, comma
1, lettera d), del  decreto-legge  22  giugno  2012,  n.  83  (Misure
urgenti per la crescita del Paese),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1,  comma  1,  della  legge  7  agosto  2012,  n.  134,  in
riferimento agli articoli 3, 24, 111, secondo  comma,  e  117,  primo
comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli articoli 6,
paragrafo 1, e 13 della Convenzione europea per la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la  legge  4
agosto 1955, n. 848, nella parte in cui  subordina  al  passaggio  in
giudicato  del  provvedimento  che  ha   definito   il   procedimento
presupposto la proponibilita' della domanda di equo indennizzo. 
    Ai sensi dell'art. 23 della legge 11  marzo  1953,  n.  87,  alla
dichiarazione  di  rilevanza  e  non  manifesta  infondatezza   della
questione di legittimita' costituzionale, segue  la  sospensione  del
giudizio  e,  l'immediata  trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale.